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Shock Economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri

Il fascino della tabula rasa. Tre decenni passati a cancellare e rifare il mondo - l'introduzione di Naomi Klein al libro Shok Economy

Naomi Klein - 17/10/2007




(In foto l'uragano Katrina a New Orleans)

Ho iniziato a studiare il fenomeno della dipendenza del libero mercato dal potere dello shock quattro anni fa, nei primi giorni di occupazione dell’Iraq. Dopo aver fatto la corrispondente da Baghdad, dove avevo raccontato dei falliti tentativi di Washington di far seguire alla dottrina Shock and Awe la shockterapia, sono andata in Sri Lanka, diversi mesi dopo il catastrofico tsunami del 2004, e lì ho assistito a un’altra versione della stessa manovra: gli investitori stranieri e i prestatori internazionali si erano uniti allo scopo di sfruttare l’atmosfera di panico per consegnare l’intero litorale a imprenditori che vi costruirono grandi villaggi turistici, impedendo a centinaia di migliaia di pescatori di ricostruire le loro case vicino al mare. «Con un crudele rovescio di fortuna, la natura ha offerto allo Sri Lanka un’opportunità unica, e da questa grande tragedia sorgerà un importante polo del turismo internazionale» annunciò il governo dello Sri Lanka. Quando poi l’uragano Katrina colpì New Orleans, e la pletora di politici conservatori, think tanks e imprenditori edili iniziarono a parlare di tabula rasa e fantastiche opportunità, fu chiaro che il metodo privilegiato per imporre gli obiettivi delle grandi imprese, adesso, era quello di usare i momenti di trauma collettivo per dedicarsi a misure radicali di ingegneria sociale ed economica.
La maggior parte dei sopravvissuti a un disastro devastante vuole ben altro che una tabula rasa: vogliono salvare il salvabile e iniziare a riparare ciò che non è stato distrutto, vogliono riaffermare il proprio legame con i luoghi in cui sono cresciuti. «Mentre ricostruisco la città mi sembra di ricostruire me stessa» diceva Cassandra Andrews, residente della Lower Ninth Ward, una delle zone più colpite di New Orleans, mentre spazzava via i detriti. Ma i fautori del capitalismo dei disastri non hanno interesse a restaurare ciò che era prima. In Iraq, nello Sri Lanka e a New Orleans, la «ricostruzione» iniziò portando a compimento il lavoro svolto dal disastro, spazzando via cioè quanto rimaneva della sfera pubblica, per poi rimpiazzarlo in tutta fretta con una specie di Nuova Gerusalemme aziendale: il tutto prima che le vittime del disastro naturale fossero in grado di coalizzarsi e reclamare ciò che spettava loro di diritto.
Mike Battles l’ha espresso nel modo migliore: «Per noi, la paura e il disordine offrivano promesse concrete». Il trentaquattrenne ex agente segreto della Cia parlava di come il caos nell’Iraq post-invasione avesse aiutato la sua sconosciuta agenzia di sicurezza privata, la Custer Battles, a ricevere circa cento milioni di dollari in contratti governativi. Le sue parole potrebbero fungere da slogan per il capitalismo contemporaneo: paura e disordine sono i catalizzatori per ogni nuovo balzo in avanti.
Quando ho iniziato questa ricerca sull’intersezione tra superprofitti e megadisastri, pensavo di essere di fronte a una mutazione fondamentale del modo in cui la spinta a «liberare» i mercati si faceva strada in tutto il mondo. Sono stata parte attiva del movimento no global che fece il suo debutto mondiale a Seattle nel 1999, e quindi ero abituata a vedere questo genere di politiche, imposte facendo pressioni ai summit dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), o come clausole dei prestiti del Fondo monetario internazionale (Fmi). Le tre richieste tipiche – privatizzazione, deregulation e sostanziosi tagli alla spesa sociale – erano di solito molto malviste dai cittadini; ma quando si firmavano gli accordi c’era almeno il pretesto di un’intesa tra i governi che gestivano i negoziati, oltre al consenso tra i presunti esperti. Ora, lo stesso programma ideologico veniva imposto con i mezzi più apertamente coercitivi: sotto un’occupazione militare straniera in seguito a un’invasione, o subito dopo un cataclisma naturale. L’11 settembre sembra aver concesso a Washington il via libera per smettere di chiedere ai Paesi se desiderano la versione americana di «economia di mercato e democrazia» e iniziare a imporla con la forza militare dello Shock and Awe.


Approfondendo la storia della diffusione su scala planetaria di questo modello di mercato, tuttavia, mi sono resa conto che l’idea di sfruttare crisi e disastri era stato fin dall’inizio il modus operandi del movimento promossa da Milton Friedman: il fondamentalismo capitalista ha sempre avuto bisogno dei disastri per imporsi. Certo, i disastri stessi erano sempre più grandi e scioccanti; ma ciò che stava accadendo in Iraq e a New Orleans non era un’invenzione nuova, post-11 settembre. Piuttosto questi esperimenti di sfruttamento delle crisi costituivano il culmine di tre decenni di stretta osservanza della dottrina dello shock.
Visti attraverso la lente di questa dottrina, gli ultimi trentacinque anni hanno un aspetto molto diverso. Alcune delle più drammatiche violazioni dei diritti umani nella nostra epoca, usualmente considerate semplici atti di sadismo compiuti da regimi antidemocratici, in realtà sono state commesse con l’intento deliberato di terrorizzare l’opinione pubblica allo scopo di preparare il terreno per l’introduzione di «riforme» radicali in senso liberista. In Argentina negli anni Settanta, la «sparizione» di trentamila persone – molte delle quali attivisti di sinistra – a opera della junta fu un passo essenziale per l’imposizione di politiche ispirate alla Scuola di Chicago, esattamente come il terrore era stato complice della stessa metamorfosi in Cile. In Cina nel 1989, lo shock del massacro di piazza Tienanmen, e gli arresti di decine di migliaia di persone che seguirono, permisero al partito comunista di trasformare gran parte del Paese in una tentacolare zona di libera esportazione, popolato da lavoratori troppo spaventati per rivendicare i loro diritti. In Russia nel 1993, Boris Eltsin decise di inviare carri armati per appiccare il fuoco agli edifici del Parlamento e di chiudere in carcere i leader dell’opposizione: fu questo a spianare la strada per la privatizzazione a prezzi di saldo che fece nascere i famigerati oligarchi di quel Paese.
La guerra delle Falkland nel 1982 servì a uno scopo simile per Margaret Thatcher in Gran Bretagna: il disordine e il fervore nazionalista scaturiti dalla guerra le consentirono di usare una straordinaria durezza per sconfiggere i minatori in sciopero e accendere la prima frenesia di privatizzazioni in una democrazia occidentale. L’attacco Nato a Belgrado nel 1999 creò le condizioni per repentine privatizzazioni nell’ex Jugoslavia: un obiettivo che risaliva a prima della guerra. Il fattore economico ovviamente non fu l’unica causa di queste guerre ma, in ciascuno di questi casi, un grande shock collettivo fu sfruttato per preparare il terreno alla shockterapia economica.
Gli episodi traumatici che hanno assolto questa funzione di indebolimento non sono sempre stati apertamente violenti. In America Latina e in Africa negli anni Ottanta, fu una crisi di indebitamento a obbligare i Paesi alla scelta tra «privatizzazione o morte», per usare le parole di un funzionario del Fmi. Messi in ginocchio dall’iperinflazione, e solitamente troppo indebitati per opporsi alle pretese che accompagnavano i prestiti stranieri, i governi accettarono un trattamento shock con la promessa che ciò li avrebbe salvati da un disastro ben peggiore. In Asia, fu la crisi finanziaria del 1997-98 – paragonabile, per gli effetti devastanti, alla Grande depressione – a trasformare, aprendo a forza i loro mercati, le cosiddette Tigri asiatiche in quella che il «New York Times» ha definito «la svendita per cessata attività più grande del mondo».Molti di questi Paesi erano democrazie, ma le radicali trasformazioni economiche non sono state imposte democraticamente. Al contrario: come Friedman aveva ben compreso, l’atmosfera generale di crisi forniva il necessario pretesto per ignorare i desideri espressi dagli elettori e consegnare il Paese a economisti «tecnocrati».
Naturalmente, ci sono stati casi in cui l’adozione di politiche liberiste ha avuto luogo in modo democratico: si sono visti politici vincere le elezioni con programmi intransigenti, e gli Stati Uniti di Ronald Reagan ne sono l’esempio migliore; un caso più recente è quello dell’elezione di Nicolas Sarkozy in Francia. In questi casi, tuttavia, i crociati del libero mercato hanno incontrato la pressione dell’opinione pubblica e sono stati obbligati a temperare e modificare i loro piani economici radicali, accettando cambiamenti parziali al posto di una conversione totale. Il punto cruciale è che il modello economico di Friedman può essere parzialmente imposto in una democrazia, ma per attuarlo in tutta la sua portata ideale sono richieste condizioni di natura autoritaria. Perché la shockterapia economica potesse essere applicata senza vincoli – come lo fu in Cile negli anni Settanta, in Cina negli Ottanta, in Russia nei Novanta e negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 – è sempre stato necessario un qualche ulteriore grosso trauma collettivo che sospenda temporaneamente o sopprima completamente le consuetudini democratiche.
Questa crociata ideologica ha visto la luce nei regimi autoritari del Sudamerica, e nei suoi più ampi territori di ultima conquista – Russia e Cina – coesiste ancora oggi, in tutta serenità e generando grandi profitti, con una leadership dal pugno di ferro.

La tortura come metafora
Dal Cile alla Cina all’Iraq, la tortura è stata un partner silenzioso nella rivoluzione liberista globale. La tortura, però, è ben più che uno strumento utile per imporre scelte politiche indesiderate a chi si ribella: è anche una metafora della logica alla base della dottrina dello shock.
La tortura – o, nel linguaggio della Cia, l’«interrogatorio coercitivo» – è un insieme di tecniche pensate per indurre nei prigionieri uno stato di assoluto disorientamento e shock, allo scopo di obbligarli a fare concessioni contro la loro volontà. La logica di fondo è resa esplicita in due manuali della Cia, desecretati nei tardi anni Novanta. In essi si spiega che per piegare le «fonti che oppongono resistenza» bisogna creare rotture violente tra i prigionieri e la loro capacità di dare senso al mondo che li circonda. In primo luogo, si elimina ogni input sensoriale (con cappucci in testa, tappi alle orecchie, manette, isolamento totale), poi si bombarda il corpo con stimoli estremi (luci stroboscopiche, musica a tutto volume, percosse, elettroshock).
Lo scopo di questa fase di «ammorbidimento» è provocare una specie di uragano nella mente: i prigionieri subiscono una regressione tale, e sono così spaventati, che non riescono più a pensare razionalmente né a proteggere i propri interessi. È in questo stato di shock che la maggior parte dei prigionieri dà a chi li interroga ciò che questi desidera: informazioni, confessioni, abiura di convinzioni precedenti. Uno dei manuali della Cia fornisce una spiegazione particolarmente esplicita: «C’è un intervallo – che può essere estremamente breve – di animazione sospesa, una sorta di shock o paralisi psicologica. È provocata da un’esperienza traumatica o subtraumatica che fa esplodere, per dir così, il mondo che è familiare al soggetto, oltre all’immagine che egli ha di sé entro quel mondo. Gli specialisti riconoscono questo effetto quando si manifesta e sanno che in quel momento la fonte è molto più aperta ai suggerimenti, molto più disposta a collaborare, di quanto non fosse appena prima di subire lo shock».
La dottrina dello shock imita alla perfezione questo processo, cercando di ottenere su vasta scala ciò che la tortura ottiene su una singola persona in una cella per interrogatori. L’esempio più chiaro è stato lo shock dell’11 settembre, che, per milioni di persone, ha «fatto esplodere il mondo a loro familiare» e ha dato il via a un periodo di forte disorientamento e regressione, che l’amministrazione Bush ha sfruttato con estrema abilità. All’improvviso ci siamo ritrovati a vivere in una sorta di Anno Zero, in cui tutto ciò che sapevamo del mondo fino a quel momento poteva essere sbrigativamente definito «pensiero pre-11 settembre». I nordamericani, che peraltro non erano mai stati grandi esperti di storia, sono diventati «un foglio bianco» sul quale «possono essere scritte le parole più nuove e più belle», come Mao disse del suo popolo. Un nuovo esercito di esperti si è materializzato all’istante per scrivere nuove e bellissime parole sulla ricettiva tela delle nostre coscienze postraumatiche: «scontro di civiltà», hanno scritto. «Asse del Male», «islamofascismo», «sicurezza nazionale». Mentre tutti ci preoccupavamo delle nuove e mortifere guerre tra culture, l’amministrazione Bush è stata in grado di ottenere quello che prima dell’11 settembre poteva solo sognare: combattere guerre privatizzate all’estero e affidare la sicurezza della patria a un complesso di aziende.
È così che funziona il capitalismo dei disastri: il disastro originario – il colpo di Stato, l’attacco terroristico, il crollo dei mercati, la guerra, lo tsunami, l’uragano – getta l’intera popolazione in uno stato di shock collettivo. Le bombe che cadono, le grida di terrore, i venti sferzanti sono più efficaci, nel rendere malleabili intere società, di quanto la musica assordante e i pugni nella cella di tortura non indeboliscano i prigionieri. Come il prigioniero terrorizzato che rivela i nomi dei compagni e abiura la sua fede, capita che le società sotto shock si rassegnino a perdere cose che altrimenti avrebbero protetto con le unghie e con i denti. Jamar Perry e gli altri sfollati al centro d’accoglienza di Baton Rouge avrebbero dovuto perdere le loro case popolari e le loro scuole pubbliche. Dopo lo tsunami, i pescatori dello Sri Lanka avrebbero dovuto cedere la loro preziosa spiaggia ai proprietari di alberghi.
Gli iracheni, se tutto fosse andato come previsto, avrebbero dovuto essere così scioccati e terrorizzati da rinunciare al controllo delle riserve di petrolio, alle loro aziende pubbliche e alla loro sovranità, cedendoli alle basi militari e alle zone verdi americane.

Questo libro è una sfida alla pretesa centrale e più cara alla storia ufficiale: che il trionfo del capitalismo senza regole sia nato dalla libertà, che il liberismo sfrenato vada a braccetto con la democrazia. Al contrario, mostrerò che questo fondamentalismo capitalista è stato invariabilmente partorito dalle più brutali forme di coercizione, inflitte sul corpo politico collettivo come su innumerevoli corpi individuali.
La posta in gioco è alta. Il corporativismo sta per conquistare le sue ultime frontiere: le economie chiuse e basate sul petrolio del mondo arabo, e i settori delle economie occidentali che a lungo sono stati protetti dal profitto – incluse la risposta alle emergenze e la creazione di eserciti. Poiché non si finge neppure di cercare il consenso popolare prima di privatizzare funzioni economiche tanto vitali, sia in patria sia fuori, serve un’escalation di violenza e disastri sempre maggiori per far avanzare la causa. Eppure, poiché il vero significato degli shock e delle crisi è stato così efficacemente cancellato dalla storia ufficiale della crociata corporativista, le tattiche estreme usate in Iraq e a New Orleans sono spesso scambiate per semplici incompetenze o favoritismi della Casa Bianca di Bush. In realtà, gli exploit di Bush rappresentano il culmine, molto violento e molto creativo, di una campagna lunga cinquant’anni per la totale liberazione delle grandi imprese, che non sarà frenata da una singola elezione in un singolo Paese. Piuttosto, è la stessa ideologia che dev’essere identificata, isolata e sfidata.
Qualsiasi tentativo di incolpare le ideologie per i crimini commessi dai loro seguaci dev’essere intrapreso con grande cautela. È troppo facile dire che coloro dai quali dissentiamo non sono solo in errore ma sono tirannici, fascisti, genocidi. È anche vero però che certe ideologie sono un pericolo per la gente e necessitano di essere identificate per quello che sono. Sono quei sistemi chiusi, quelle dottrine ideologiche che non possono coesistere con altri sistemi di valori: i loro seguaci disprezzano la diversità e pretendono una tabula rasa su cui costruire. Il mondo com’è oggi va cancellato per edificarne uno nuovo e perfetto. È una logica che affonda le radici nelle fantasie bibliche di grandi inondazioni e grandi incendi, una logica che conduce ineluttabilmente alla violenza. Le ideologie che aspirano a quell’impossibile foglio bianco che si può raggiungere solo con un qualche cataclisma sono le ideologie pericolose.
Di solito sono i sistemi ideologici basati sull’estremismo religioso e sul concetto di razza che richiedono l’eliminazione di altri gruppi al fine di perseguire una visione purista del mondo. Ma in seguito al crollo dell’Unione Sovietica, c’è stata una potente resa dei conti collettiva con i grandi crimini commessi nel nome del comunismo. Gli archivi sovietici sono stati aperti ai ricercatori, che hanno così potuto contare i morti per carestie forzate, campi di lavoro e omicidi politici. Il processo ha scatenato un acceso dibattito su quanto le uccisioni fossero ispirate dall’ideologia in sé, o invece dalla sua distorsione da parte di seguaci come Stalin, Ceausescu, Mao e Pol Pot.
«È stato il comunismo in carne e ossa a imporre la repressione all’ingrosso, culminata in un regno di terrore spalleggiato dallo Stato» scrive Stéphane Courtois, coautore del discusso Libro nero del comunismo. «L’ideologia è, dunque, innocente?» Certo che ne ha. Non ne consegue che tutte le forme di comunismo siano intrinsecamente genocide, come qualcuno ha affermato, ma è stata senza dubbio un’interpretazione della teoria comunista, un’interpretazione dottrinaria, autoritaria e contraria a ogni pluralismo, che ha condotto alle purghe staliniane e ai campi di rieducazione di Mao. Il comunismo autoritario è, ed è bene che sia, per sempre macchiato da quei laboratori.
Ma che ne è allora della crociata contemporanea per liberate i mercati mondiali? I colpi di Stato, le guerre e i massacri che servono a installare e mantenere i regimi a favore delle grandi società non sono mai stati trattati come crimini del capitalismo, ma sono stati liquidati come eccessi di dittatori troppo zelanti, come fronti caldi della Guerra fredda, e ora della Guerra al Terrore. Se i più decisi oppositori del modello economico corporativista sono sistematicamente sterminati – in Argentina negli anni Settanta, in Iraq oggi – quella soppressione è giustificata come parte della lotta sporca contro il comunismo o il terrorismo: quasi mai come la lotta per l’avanzamento del capitalismo puro.
Non sto affermando che tutte le forme di sistema di mercato sono per forza violente. È assolutamente possibile, certo, avere un’economia di mercato che non richieda una simile brutalità e non necessiti di tale purezza ideologica. Un mercato libero dei prodotti di consumo può coesistere con una sanità pubblica, con scuole pubbliche, con un ampio segmento dell’economia – come una compagnia petrolifera pubblica – saldamente in mano statale. È parimenti possibile richiedere che le grandi aziende paghino salari decenti e rispettino il diritto dei lavoratori di costituirsi in sindacati; e che i governi tassino e redistribuiscano la ricchezza così che le aspre ineguaglianze che affliggono lo Stato corporativo siano ridotte. Non è obbligatorio che i mercati siano fondamentalisti.
Keynes aveva proposto esattamente questo genere di economia mista, regolata, dopo la Grande depressione: una rivoluzione nell’approccio politico che creò il New Deal e trasformazioni analoghe in tutto il mondo. È stato proprio quel sistema di compromessi, controlli ed equilibri che la controrivoluzione di Friedman mirava a smantellare metodicamente Paese dopo Paese. Vista in questa luce, la variante fondamentalista del capitalismo propria della Scuola di Chicago ha, in effetti, qualcosa in comune con altre pericolose ideologie: quel tipico desiderio di irraggiungibile purezza, di imbiancare la tela e tirar su dal nulla la società ideale.
Questo desiderio di disporre del potere divino di creazione ex nihilo costituisce precisamente il motivo per cui gli ideologi del libero mercato sono così attratti dalle crisi e dai disastri. Una realtà non apocalittica è semplicemente incompatibile con le loro ambizioni. Da trentacinque anni, ciò che anima la controrivoluzione di Friedman è stata l’attrazione per un tipo di potere, libertà e senso di possibilità che è disponibile solo in tempi di mutamento cataclismatico – quando le persone, con le loro abitudini ostinate e le loro domande insistenti, vengono spazzate via – momenti in cui la democrazia sembra concretamente impossibile. Chi crede nella dottrina dello shock è convinto che solo una grande discontinuità – un’inondazione, una guerra, un attacco terroristico – possa generare quelle tele vaste e bianche tanto intensamente desiderate. In questi momenti malleabili, in cui siamo psicologicamente e fisicamente sradicati, gli artisti del reale tuffano le mani e iniziano il loro lavoro di ricreazione del mondo.

Fonte: rizzoli.rcslibri.corriere.it

 

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Categorie: Politica e Informazione











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