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Mangiare cibi selvatici: le sfide, i benefici e le conseguenze

Cibo Locale è un libro apppena pubblicato da Arianna Editrice che parla di costruire comunità locali dinamiche e solidali partendo dalla produzione del cibo.

Fergus Drennan - 21/09/2010




Mangiare regolarmente delle piante selvatiche può migliorare la salute mentale e fisica, diversificare e ravvivare il menù giornaliero, dare un genuino senso di appartenenza al territorio, facilitare una sensibilizzazione più profonda per l’ambiente, far risparmiare un sacco di soldi, contribuire ad allargare il panorama delle amicizie e sicuramente facilitare l’illuminazione spirituale! Il consumo delle singole piante selvatiche vi suggerisce chi siete.

La storia dell’uomo, fino a un tempo relativamente recente, è stata incentrata sulla ricerca del cibo, che in origine era selvatico. Le nostre vite erano guidate interamente dai ritmi naturali, dai cicli e dalle stagioni, e così anche l’andare a caccia e il raccogliere cibo. La ricerca del cibo non era fine a se stessa, comprendeva anche uno stile di vita fondato sul rispetto e un impegno positivo e reciproco con la natura. Un sano, vibrante e fiorente ambiente esterno aveva una relazione di contiguità con il mondo interiore di ognuno. Anche se abbiamo perso, per lo più, quell’unione – in parte a causa degli insostenibili parametri della nostra esistenza, condizionata dai combustibili fossili – la ricerca del cibo è un modo per imparare a usufruire dei benefici che fluiscono da una diretta e intima comunicazione con la natura – pratica, esperienziale, sensibile ambientalmente – e da una sorta di conversazione esplorativa con il mondo naturale, unita alla ricerca del nostro posto al suo interno.

La grande avventura per il cibo selvatico inizia, per me, con il riconoscimento delle piante e dell’habitat. Si aggiunge, in seguito, il vigore primaverile nella raccolta della linfa dell’albero, la felicità estiva nella ricerca delle alghe a riva sotto il sole, la foschia autunnale nella raccolta dei funghi e il gelo invernale nello sradicamento delle radici. Tra le centinaia di alimenti selvatici dalla a alla zeta potenzialmente disponibili, secondo le singole stagioni, molti sono facili da trovare, da identificare e da preparare, mentre altri richiedono una paziente ricerca e un notevole impegno.

L’apprendimento dell’arte della conservazione e dello stoccaggio può essere visto come una perdita di tempo, ma è profondamente ripagata. Il congelamento, l’essiccamento, la raccolta, l’imbottigliamento, la salamoia, la fermentazione, l’affumicamento ecc. servono non solo a conservare i cibi raccolti allo stato stagionale migliore, ma anche a procurarsi l’opportunità di creare un assortimento di alimenti pieni di colore e una caleidoscopica gamma di cibi, unici nella loro esclusiva struttura e nel sapore.

Una più ampia conoscenza dei cibi selvatici è iniziata, per me, quando, andando al di là della semplice sostituzione di uno o due ingredienti nelle ricette convenzionali, ho mangiato soltanto cibo selvatico per un giorno intero, per settimane o per mesi. Poi c’è stata la difficoltà di come procurare/fare gli essenziali, poi non così essenziali, ingredienti – pane, vino, sale, carne, farina, maionese, humus, pasta, aceto, dolci – completamente dal nulla e/o, contemporaneamente, di come raggiungere, più scientificamente, una dieta bilanciata e salutare di proteine, grassi, carboidrati, vitamine e minerali.

Prendiamo, per esempio, il classico prodotto biblico: il pane. In assenza di farine selvatiche, quali e dove sono, le farine sostenibili sostitutive che possiamo trovare? La dolce farina di castagne o la farina di ippocastano, quella di semi di ghianda o di rosa canina, di stiancia [giunco di palude – N.d.T] o di arum tubers? Queste sono risorse abbondanti, ma alcune di esse sono estremamente tossiche, se non vengono trattate correttamente al momento di essere trasformate in farina, così c’è bisogno di ricerca, di sperimentazione e di creatività. A parte il grano, nessuna farina selvatica contiene glutine. Gli estratti di alga possono essere accorpati all’impasto del pane di farina di castagne e di ghiande, al fine di provvedere a una sufficiente integrità strutturale per ottenere una superficie croccante una volta terminato il pane. Un eccesso di alghe può essere usato per il compost; i gusci delle castagne possono servire per affumicare le alghe e altri cibi. Dai gusci delle castagne utilizzate per la farina si ottiene anche uno sciroppo dolce; le castagne possono anche sostituire i ceci per fare l’humus con l’aglio selvatico!

La raccolta del cibo può essere un’esperienza esaltante, riflessiva e profondamente meditativa, sia come attività solitaria che in compagnia di amici. Certamente lavorare insieme aiuta a vivere la ricerca del cibo non come un lavoro ingrato, ma come un atto rituale e di celebrazione stagionale. Così è il ritornare a un nascondiglio ove si è posta un’alga saporita a seccare o il sorseggiare un ottimo bicchiere di succo di olivello spinoso preso mesi prima. La raccolta del cibo fatta in compagnia può essere completata in breve tempo e fornisce l’opportunità per il dibattito, ovvero la sperimentazione di progetti alimentari innovativi e sostenibili.

Le estrazioni, effettuate dalla comunità su piccola scala, di proteine nobili delle bolle [in botanica, malattia fungina che si manifesta su germogli, frutti e foglie di alcune piante – N.d.T.] dalle foglie di ortica, di aglio selvatico, di malva sono solo alcuni tra gli esempi di produzione alimentare sostenibile, selvatica. Sono convinto che essa ha adesso, e avrà in futuro, un ruolo non marginale. C’è già un buon numero di pionieri, su questa strada.


Se la raccolta ci permette di mettere in atto delle risorse innate di creatività, di immaginazione e di gioco collettivo, è anche vero che, come qualsiasi attività, ha dei rischi connaturati. Non bisogna mai mettere a repentaglio la propria vita, e questo non significa togliere emozione all’attività di raccolta. Una regola, semplice e unica, è quella di non consumare alcuna parte di una pianta, a meno che non abbiate identificato la pianta stessa con un’accuratezza del cento per cento. Dovete saper riconoscere che la parte che vorreste mangiare è commestibile alla sola condizione che voi l’abbiate raccolta, preparata e conservata. In questo modo, potrete essere sicuri che non è stata contaminata da inquinanti.

L’abbondanza di conoscenze tradizionali e il costante aumento di informazioni della ricerca scientifica disponibili sulla rete consentono un aggiornamento in tempo reale, semplice ma anche difficile da seguire. Se, come accade a me, l’incertezza ha un certo fascino su di voi, in quanto elemento integrante dell’attrazione per la ricerca di cibo, e scegliete di non seguire queste regole così rigidamente come il buonsenso detta, potrei suggerire, tra il serio e il faceto, di rendere pubblici i documenti sui vostri trionfi e sulle vostre catastrofi (quando ritenete di essere abbastanza esperti per farlo). Questa è la via attraverso la quale gli altri potrebbero fare tesoro della vostra esperienza, per evitare errori fatali.

L’uso di cibo selvatico, per rimanere sostenibile, deve essere percepito come un aspetto dello sforzo della collettività per vivere e mangiare in maniera sostenibile. Attraverso un’accurata raccolta del cibo, e altri modi lenti che hanno comunque un basso impatto nell’approvvigionamento (come la coltivazione fatta da voi), viene capovolta la nozione che il cibo sia solo un mero oggetto o un bene economico, un codice a barre e un segnale acustico all’uscita della cassa, cresciuto, classificato, impacchettato, prezzato e distribuito secondo un sistema su cui noi abbiamo pochissima influenza o controllo.

La sostenibilità alimentare, che preferisce la qualità alla quantità e il cibo a portata di mano a quello proveniente da lontano, può essere vista come un atto radicale di ribellione contro l’avido sistema corrente, che si basa sul sistema petrolchimico, su un eccesso di trasporti, di impacchettamenti, di sprechi e di generale follia associata al nostro sistema alimentare industriale. L’unione, nel luogo e nel tempo giusto, di un numero sufficiente di persone accomunate dal gusto di procurarsi il cibo in compagnia, diventa un atto intenzionale per abbracciare un cambiamento e la mai abbandonata speranza di compiere la Transizione
verso la resilienza, avendo, inoltre, cura delle colture.


Fergus Drennan è uno chef, un insegnante e un foraggiatore di cibo selvatico. È anche il presentatore della serie TV “The Roadkill Chef” (v.: www.wildmanwildfood.com).


Estratto da Cibo Locale, Arianna Editrice 2010, pp. 35-36.

 

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Categorie: Autoproduzione e Riciclaggio creativo,Politica e Informazione,Decrescita,Ecologia e Localismo,Alimentazione e salute

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