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Non arrivare al cassonetto: dipende solo da noi

Smettere di agire di maniera crea rifiuti, crea discariche e crea termovalorizzatori è una responsabilità personale - tratto dal CONSAPEVOLE 12

Carlo Bertani - 12/10/2007




«La nostra sporcizia, i nostri rifiuti vengono gettati lontano. In questo modo avveleniamo fiumi, laghi e mari oppure li trasportiamo in complicatissimi e costosi impianti di depurazione, raramente in fabbriche centralizzate di compostaggio, o invece i nostri rifiuti vengono annientati.
La merda non ritorna mai ai nostri campi e nemmeno là da dove viene il cibo. Il circuito dal cibo alla merda funziona. Il circuito dalla merda al cibo è interrotto.»
Friedrich Hundertwasser


L’Italia è un “paese fotocopia”. Ogni anno che passa, potremmo “riciclare” le notizie di quello precedente: come nel 2006, 2005, 2004, anche quest’anno è scoppiata “l’emergenza rifiuti”.
Montagne di rifiuti s’accumulano nelle strade, soprattutto nel Meridione, mentre colonne di camion cariche di spazzatura s’avventurano – scortate dalla Polizia – fra paesi in guerra e popolazioni al limite della sopportazione. Dove vanno? Tentano di raggiungere l’ennesima discarica “temporanea”, nell’attesa che si trovi l’ennesimo “sito” per l’interramento definitivo: ovviamente, nell’attesa che sia definito dove e se costruire un inceneritore, un termovalorizzatore o comunque lo si voglia chiamare. Intervistati dai solerti TG nazionali, sudaticci funzionari affermano di “lottare contro il tempo”, “contro gli immobilismi”, “contro le eco-mafie”, contro, insomma, un’emergenza apocalittica!
Ora, “un’emergenza” deriva – per definizione – da un evento straordinario ed imprevisto: nessuno prevedeva che, anche quest’anno, avremmo gettato nella spazzatura le bucce dei piselli e i cartocci del latte?
Negli altri paesi europei si nominano commissari straordinari per i terremoti e per le alluvioni; nel Bel Paese, alti funzionari dello Stato sono insigniti dell’ambita carica: Commissario per la Monnezza.
Tutto l’andazzo è finalizzato ad un solo scopo: trovare qualcuno disposto ad accettare sul suo territorio una discarica, un’amena valletta (meglio se un po’ nascosta) da riempire di spazzatura. Almeno, per quest’anno “tiriamo il fiato”. Le riunioni “politiche” si sprecano: sindaci di quel partito incontrano governatori dell’altro, ma c’è di mezzo un presidente della Provincia dell’opposto schieramento, e si torna da capo. S’interpella Roma, ma Roma ha ben altro cui pensare: elezioni, fusioni di partiti, grandi riforme istituzionali. No, Roma nomina il Gran Commissario: e che se la sbucci lui, fra le bucce delle fave e delle arance!

La discarica: la soluzione del gatto
Se riduciamo all’osso la questione, siamo come un gatto che deve “farla” ed osserva con circospezione il terreno: dietro a quel cespuglio? Sotto l’albero? Sì, sotto l’albero va bene: un po’ di lavoro con le zampe anteriori – quindi l’atto – e lo zampettare con quelle posteriori per ricoprire il tutto. Anche per oggi, il problema è risolto. Nel terzo millennio del silicio e delle tecnologie spaziali, il Gran Commissario osserva il gatto. E impara.
Proviamo a salire di un misero scalino ed osservare altre soluzioni?
Per prima cosa dobbiamo sfatare il mito che la spazzatura, in discarica, non inquini: inquina pesantemente e definitivamente il terreno, e non solo.
Nonostante ci raccontino che sono state seguite alla lettera le “norme” e prese tutte le opportune “precauzioni”, vorremmo sapere cosa genereranno montagne di spazzatura interrate dopo decenni di piogge. Nessuno può fermare l’acqua, che s’intrufola, scava, scende: gutta cavat lapidem – affermavano i latini, la goccia scava la pietra – figuriamoci la spazzatura.
Risultato: dopo qualche anno, metalli pesanti e molecole d’ogni forma s’espandono ben oltre i confini della discarica e vanno ad inquinare le falde acquifere. La preziosa, e sempre più scarsa acqua che abbiamo a disposizione, dobbiamo prelevarla sempre più lontano dalle città, perché le falde più vicine sono inquinate da Cromo, Mercurio, Piombo e molecole d’ogni tipo sparse a pioggia. Finito? Manco per idea.
Le molecole organiche (carta, legno, residui alimentari, materie plastiche, ecc) sono costituite da lunghissime catene formate da atomi di Carbonio. Tutto cambia – panta rei, affermavano già i Greci – ed il Carbonio può seguire due strade per “mutare”: l’unica cosa che non può assolutamente fare è rimanere così com’è, perché la chimica è un continuo mutare, trasformare, rinnovare.
Se il Carbonio si lega con l’Ossigeno (tipicamente, una combustione) forma l’anidride carbonica – responsabile dell’effetto serra – mentre se è interrato cambia per fermentazione anaerobica. I batteri, sempre presenti, spezzano le lunghe catene di atomi e formano metano: a prima vista, sembrerebbe una buona soluzione.
Invece no, perché il metano che si forma è difficile da recuperare e – per gli usi energetici – è di scarsissima entità, mentre – se liberato nell’atmosfera – inquina, e parecchio. Una molecola di metano riflette una quantità di radiazione infrarossa (l’effetto serra) pari a 21 volte quella riflessa da una molecola d’anidride carbonica. Quindi, dal punto di vista dell’inquinamento, le discariche sono la peggior soluzione: incrementano enormemente l’effetto serra ed inquinano definitivamente terreni e falde acquifere.

TermoSvalorizzare
L’altra soluzione è bruciare i rifiuti in appositi impianti, per ottenere la miglior combustione possibile e ridurre il rilascio di prodotti di combustione indesiderati.
Qui bisogna sfatare un mito: i termovalorizzatori producono sì energia elettrica, ma è sbagliato pensare ad essi come ad un metodo di produzione energetica. Più seriamente, dovrebbe essere chiarito che sono mezzi per eliminare i rifiuti, dai quali è possibile recuperare un po’ d’energia.
La distinzione è importante perché, se pensassimo ad essi come al toccasana della produzione energetica, potremmo cadere nell’errore di generare più rifiuti: tanto ci penseranno i termovalorizzatori!
I termovalorizzatori, però, bruciano il materiale più composito che possiamo immaginare: pur trasformando preventivamente i rifiuti nel CDR (Combustibile Da Rifiuti) mediante complesse operazioni chimico-fisiche, rimane un composto formato da legno, plastica, coloranti, vernici, ecc.
All’estero, la tecnologia per bruciare i rifiuti è più avanzata che in Italia, e si riescono ad ottenere rilasci molto contenuti di sostanze inquinanti, tanto che gli impianti sorgono anche in aree urbane.
In Italia – e questo è un altro mistero che dovrebbero spiegarci – anche i più moderni impianti sono almeno un paio di “generazioni” indietro rispetto a quelli d’oltralpe.
I timori delle popolazioni – quindi – sono pienamente giustificati: perché un sindaco dovrebbe concedere la costruzione di un termovalorizzatore, quando non ha garanzie sul futuro inquinamento?

Spezzare la catena del rifiuto
Se vogliamo però salire un ulteriore “scalino”, e cercare soluzioni radicali, non possiamo che partire dalla “catena” del rifiuto: in definitiva, si brucia ciò che s’immette nella “filiera” del rifiuto.
I rifiuti organici naturali (scarti di cucina, ad esempio) non producono inquinanti: il vero problema sono i materiali prodotti dall’uomo mediante la manipolazione chimica. Una cassetta di legno può bruciare tranquillamente: la stessa cassetta, costituita da materiale plastico, è un problema.
Qui nasce il problema dei rifiuti: quando s’arriva al cassonetto, la frittata oramai è fatta.
Gli imballaggi sono i materiali che generano più problemi: enormi masse di materie plastiche, nylon, coloranti. È proprio necessario costruirli con queste sostanze?
Se i contenitori per il trasporto e l’imballaggio delle merci vengono recuperati, allora possiamo costruirli con qualsiasi materiale, ma se vanno a finire nel cassonetto – quante volte abbiamo notato cataste di cassette per la frutta in plastica accanto ai cassonetti? – sarebbe meglio farli di legno. E per gli imballaggi, non sarebbe meglio utilizzare il cartone? Ancora: è proprio necessario colorare il cartone, cosicché rimane intriso di coloranti chimici che inquinano pesantemente?
Un enorme quantitativo di rifiuti è costituito da mobili: anzi, ex mobili. Per costruire i mobili, deforestiamo immense aree, trituriamo il legno e lo ricomponiamo con colle sintetiche. Con i pannelli, quindi, costruiamo i mobili.
I mobili moderni saranno pure lisci e senza la minima fessura, ma dopo qualche decennio – inevitabilmente – le colle si de-polimerizzano ed i pannelli di truciolato vanno letteralmente in polvere: perché non usare il legno?
Un mobile in legno – se protetto dai tarli – può durare alcuni secoli: ne sono testimoni i mobili antichi giunti sino a noi. Curandoli con della semplice cera d’api, i nostri progenitori hanno usato gli stessi mobili per generazioni: certo, ci sono preferenze dovute alle mode od agli stili, ma tutto ciò cela la nostra ansia del dover cambiare tutto ciò che ci circonda, frequentemente, per mascherare la nostra incapacità di cambiare il nostro pessimo stile di vita. Dalla produzione al consumo, tutto deve vorticare celermente per donarci l’illusione della felicità. Effimera.

Acquistare la metà
Ovviamente, il capitalismo alimenta ad arte – grazie alla pubblicità – la sete di mutamento: sei depresso? Comprati un paio di scarpe nuove: per un paio d’ore scaccerai il male ai piedi osservando le tue nuove zampe sontuosamente calzate.
La stessa molla del consumo inconsapevole ci spinge ad acquistare il cartoccio dei pomodori che ha la confezione più appariscente e colorata: nastrini dorati, nylon che riflettono la luce, scritte accattivanti che richiamano paradisi della natura.
In realtà, quei pomodori sono probabilmente cresciuti sotto una cappa di concimi chimici e diserbanti e sono stati raccolti da uno schiavo nero – che oggi chiamiamo “extracomunitario” – per pochi centesimi: nell’estate del 2006, le Forze dell’Ordine scoprirono, in Puglia, una vera holding della schiavitù, con tanto di “caporali” armati che sorvegliavano i “lavoratori extracomunitari”. Peggio dei campi di cotone dell’Alabama.
Se fossimo consapevoli dell’abisso d’infelicità nel quale siamo precipitati, probabilmente acquisteremmo la metà dei prodotti che compriamo: perché non si costruiscono automobili che durano trent’anni? Sarebbe possibile e vantaggioso, sia economicamente e sia per gli aspetti energetici ed ambientali.
La risposta è: perché nessuno si terrebbe la stessa auto per trent’anni. Vorrebbe cambiare, non entrare nella stessa “forma” per tre decenni. Ci chiediamo perché ci disturba tanto? Perché quel “cambiare” acquieta la nostra sete di mutamento interiore, perché ci rendiamo conto che stiamo costruendo un mondo alla rovescia: campagne spopolate e città invivibili, ricchi straricchi e poveri strapoveri, felicità effimere e depressioni dilaganti.
Ora, qualcuno potrebbe chiedersi cosa c’entra tutto ciò con i rifiuti: possiamo discutere all’infinito sulla convenienza della raccolta differenziata, sugli inceneritori, sul riciclo dei materiali – ed è giusto farlo – ma se non mutiamo le nostre abitudini – ovvero se non diminuiamo la colossale quantità di beni che consumiamo nei paesi ricchi, senza trovare felicità – saranno soltanto pannicelli caldi per curare un tumore.
Siamo così fessi, stupidi, inconsapevoli? No: c’è chi alimenta ad arte questa tendenza e ci campa allegramente. Ovviamente, chi produce un bene vorrà produrne di più per arricchirsi: la nota teoria dello “sviluppo senza limiti”, che rischia seriamente di mettere in crisi l’intera specie umana, ma c’è chi ha trasformato il rifiuto in una fonte di ricchezza e di potere.

Chi ci guadagna se produciamo più rifiuti?
Tutti paghiamo la tassa sulla spazzatura. Quanto? Dipende, ma una cifra vicina ai 200 euro a famiglia è vicina alla realtà. Questa tassa genera annualmente un capitale pari a circa 5 miliardi di euro. Chi lo gestisce? Gli assessori incaricati di gestire i rifiuti, che si servono d’aziende municipalizzate o private per “risolvere” il problema.
Qui entrano in gioco le cosiddette “eco-mafie”, che non sono eserciti d’individui con coppola e lupara: più semplicemente, sono distinti signori in doppiopetto che ricevono appalti per la gestione della spazzatura i quali, a loro volta, li re-distribuiscono in una jungla di subappalti.
Sulla monnezza campa un esercito di camionisti, raccoglitori, funzionari, e su tutti, come un sovrano, regna il nostro assessore che, con una delibera, può cambiare il destino di centinaia di persone. Le quali, ovviamente, mostreranno riconoscenza alle elezioni. Proviamo a riflettere su qualche milione di euro da gestire per raccogliere voti: la spazzatura può anche fare tre volte il giro dello Stivale, basta che alla scadenza elettorale caschi tutta sullo stesso nome.
Perché, soprattutto al Sud, la raccolta differenziata non decolla? Poiché manderebbe in crisi il sistema, “l’affare monnezza”. Del resto, la politica-spazzatura, la TV-spazzatura e l’informazione-spazzatura, su cosa potrebbero reggersi?

FUNZIONA!
Raccolta differenziata: buoni risultati a Colli Aniene
Dal marzo scorso è stato avviato a Colli Aniene (un quartiere romano) un progetto di raccolta differenziata porta a porta che ha già prodotto ottimi risultati. In sole tre settimane 63% dei rifiuti sono stati raccolti in maniera differenziata, per un totale di circa 35,8 tonnellate. Nello specifico sono state avviate al riuso 11 tonnellate di carta, 10 tonnellate di multimateriale (plastica, vetro e metallo) e 16 tonnellate di scarti alimentari (che saranno trasformati in compost di qualità). A giugno il progetto pilota partirà anche nel quartiere Decima (Roma) e successivamente il servizio sarà esteso anche in zona Massimina, coinvolgendo complessivamente, nei tre quartieri, 30.000 cittadini.
(Fonte: fareverde.it)

 

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