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Globalizzazione e localismo

Dal libro "Piccolo è bello, grande è sovvenzionato"

Helena Norberg-Hodge - 09/05/2007




Con il crollo del comunismo è opinione comune che al mondo rimanga un’unica opzione: un mercato globale non regolamentato e dominato dalle grandi corporation.

Molti ritengono che la liberalizzazione consenta alle grandi corporation transnazionali di fornire ai consumatori una gamma di prodotti provenienti da ogni parte del globo che non ha precedenti. Grazie all’economia globale possiamo riempire il carrello del supermercato con mele del Kenya, burro a basso prezzo della Nuova Zelanda, e con tutti i cibi esotici che desideriamo. Se questi prodotti sono più a buon prezzo dei loro corrispettivi locali, è perché i fornitori operano su scala più larga ed efficiente. Abili promotori e sofisticate campagne pubblicitarie ci convincono che più grande è l’impresa, più sicuri sono i suoi prodotti alimentari.

Oltre a questi benefici in casa dei consumatori, molti sembrano pensare che la crescente diffusione del modello economico occidentale sarà accompagnata da un’esportazione della democrazia occidentale. La globalizzazione ha prodotto tariffe aeree più basse e una comunicazione ravvicinata tra le diverse culture, nella speranza che questo fenomeno annunci la nascita di un pacifico “villaggio globale” che metta fine alle guerre tra le nazioni.

Poiché i problemi ambientali, dai cambiamenti climatici all’estinzione di specie animali, trascendono ovviamente allo stesso modo i confini nazionali, la globalizzazione viene vista anche come un passo indispensabile verso la collaborazione internazionale per la soluzione di problemi globali.

Al di là di questi presunti effetti benefici l’economia globale è presentata come inevitabile e destinata a crescere, che lo vogliamo o no. È la conseguenza di una cultura consumistica insaziabile. È quello che le grandi corporation vogliono o, per essere più esatti, è ciò che nessuno ha il potere di fermare. Nella sua analisi finale, la globalizzazione è spesso indicata come un “evidente destino” economico dettato da “leggi economiche” che si sottraggono all’intervento umano. Queste leggi favoriscono in modo naturale i grandi produttori rispetto ai piccoli e la produzione globale centralizzata rispetto alla produzione locale parcellizzata. Si scopre che grande è conveniente, grande è efficiente, grande è meglio! Come abbiamo cercato di dimostrare in questa ricerca, la verità è che l’efficienza “della grande scala” è un mito; grande non significa automaticamente “meno caro” o “più efficiente”.

Se guardiamo al di là delle affermazioni e dei confini ristretti di questa visione convenzionale, appare chiaro che le grandi corporation sono il prodotto del supporto governativo attraverso tutta una gamma di sovvenzioni dirette e indirette.

 

 

Ribaltare il campo di gioco

 

Per generazioni il denaro delle nostre tasse è stato usato per creare una struttura economica che favorisce il grande rispetto al piccolo. Il risultato è che tutte le nostre scelte, dall’educazione alle scelte energetiche, ai trasporti e alla comunicazione, vengono distorte e manipolate a favore di un’economia sempre più centralizzata e sempre più globalizzata. Assieme, questi sussidi e investimenti dispendiosi contribuiscono a creare un sistema estremamente inefficiente. L’apparenza di efficienza viene mantenuta solo perché le nostre tasse coprono molti dei costi, a spese dei piccoli produttori locali che, disponendo solo delle loro risorse, sono fatti sembrare in paragone inefficienti.

Le grandi TNC (le corporation transnazionali) sfruttano inoltre la loro capacità di esercitare pressioni sui governi per ottenere l’approvazione di leggi che favoriscono i grandi produttori, spesso allo scopo deliberato di distruggere i concorrenti più piccoli. Un altro fattore che finisce paradossalmente per favorire il grande rispetto al piccolo è che la produzione intensiva su larga scala è spesso automaticamente più inquinante.

Prendiamo ad esempio il caso degli allevamenti automatizzati. Dove popolazioni concentrate di animali vengono fatte vivere in spazi limitati ci sono tutte le condizioni per lo scoppio di epidemie. In queste situazioni sono necessarie più norme e più controlli che non nel caso dei piccoli allevatori. Ma questi ultimi sono costretti a osservare le stesse norme rigorose, e per loro inutili, a costi che ben pochi si possono permettere di affrontare.

L’appoggio governativo ai trasporti e alle comunicazioni ad alta tecnologia mette in grado le multinazionali di distruggere i piccoli concorrenti locali. Un negozio locale in una cittadina inglese che acquista la maggior parte dei prodotti sul mercato locale non ha bisogno di comunicazioni satellitari, computer centralizzati, infrastrutture per i trasporti su larga scala, navi portacontainer, carburante per i trasporti aerei a forti sovvenzioni statali, e così via. Al contrario, un grande ipermercato non può fare a meno di tutto ciò.

Dal punto di vista del consumatore può sembrare che prodotti che provengono dall’altro capo del mondo siano più a buon prezzo, a patto che tutte queste sovvenzioni restino invisibili. Ma dobbiamo iniziare a considerare non solo il denaro nelle nostre tasche, ma anche il modo in cui le nostre tasse vengono usate contro di noi. Sempre più consumatori sono messi nelle condizioni di acquistare alimenti conservati, e con data di scadenza, che provengono da luoghi lontani solo perché costano meno. Il “ribaltamento del campo di gioco” consiste nel fatto che non possono permettersi cibo locale fresco.

Al cuore della moderna economia industriale c’è il principio del “vantaggi comparati”, secondo il quale è sempre nell’interesse di un paese specializzare la produzione per l’esportazione invece di promuovere una produzione diversificata per il bisogno locale e nazionale. Come conseguenza, le politiche economiche a favore degli scambi commerciali hanno appoggiato le imprese che attraverso le fusioni sono diventate le grandi società multinazionali che oggi conosciamo. Attualmente tutte le merci principali del mercato mondiale (caffè, cacao, cotone) sono controllate da una manciata di corporation.

Questo supporto al commercio internazionale ha dato agli operatori globali un vantaggio sleale nei confronti dei produttori e dei commercianti locali. Il risultato è un campo di gioco ribaltato a favore dei monopoli che diventano ogni giorno sempre più grandi e potenti. In anni recenti il loro potere è stato enormemente aumentato da una serie di “trattati di libero scambio” come il NAFTA, Maastricht, il GATT e il MAI (Multilateral Agreement on Investment - Accordo Multilaterale di Investimenti). Noto come la “Carta delle multinazionali”, il MAI antepone i diritti delle compagnie a quelli delle nazioni e dei cittadini. Questo fatto dà alle grandi compagnie il potere di fare causa ai governi se le legislazioni interne interferiscono con il commercio. Questi accordi non riguardano gli accordi commerciali tra nazioni, ma i diritti delle corporation transnazionali di agire liberamente su qualunque mercato nazionale.

Negoziati in segreto, avvolti in un linguaggio tecnico enormemente complesso, questi trattati vengono raramente letti, e ancora meno compresi, dagli organi preposti. Firmandoli, i governi minano, spesso involontariamente, il proprio potere. Ciò che in realtà fanno è appoggiare le corporation globali estremamente attive a detrimento della più piccola economia nazionale e locale, impoverendo in questo modo se stessi.

Mentre le imprese più piccole che operano sul mercato nazionale continuano a pagare le tasse, le corporation transnazionali possono cambiare le loro attività in un attimo per evadere le imposte. Il potere dei governi diminuisce quindi sempre di più, perché vedono diminuire le entrate fiscali. Gli stati nazionali diventano così sempre più poveri e i governi si vedono costretti a ridurre la spesa pubblica per la sanità, il welfare, l’istruzione e altri servizi pubblici.

Poiché le politiche economiche spingono le grandi corporation a setacciare il mondo intero alla ricerca di risorse e di mano d’opera più economiche, gli standard socio-ambientali sono stati progressivamente abbassati per attirare gli investimenti di capitali.

Il risultato è che siamo bloccati in una corsa al ribasso in cui tutti perdono: il diritto al lavoro, la coesione sociale, l’ambiente e gli standard più basilari della democrazia e della libertà sono minacciati. L’ironia è che pagando le tasse sosteniamo le stesse forze responsabili di mettere a rischio le nostre comunità, la sicurezza del lavoro e la protezione dell’ambiente.

Il lavoro sta diventando sempre meno sicuro e siamo costretti a fare rapidi cambiamenti in cerca di occupazione, in termini di spostamenti fisici e di riqualificazione professionale. Chi conserva il lavoro viene sottoposto a uno stress sempre maggiore, con sempre meno tempo per se stesso, per i figli e per i piaceri della vita. Persino nei paesi nordici più ricchi, come la Svezia, la Norvegia e il Canada, in cui fino a poco tempo fa i senza tetto e la povertà dichiarata erano fenomeni sconosciuti, iniziano a comparire segni di gravi problemi sociali.

In quanto fattore del processo di globalizzazione, la produzione viene spostata nelle aree a basso costo del terzo mondo e dell’Europa dell’Est. L’aumento di investimenti incontrollati in queste aree ha causato un caos finanziario e tracolli economici come quelli verificatisi in Messico, Estremo Oriente, America Latina e Russia.

L’aumento della povertà nel sud del mondo è enorme: milioni di persone vengono cacciate dalle campagne nella speranza di trovare nelle città migliori condizioni di vita. La televisione, la pubblicità e il turismo dipingono la vita nelle città occidentali e la cultura consumistica come più desiderabili. I giovani sono molto vulnerabili a questi messaggi dei media e vengono convinti a rifiutare la loro cultura, soprattutto il lavoro nelle campagne: la pesca e l’allevamento sono oggi considerate occupazioni sporche e primitive.

Delle masse che si inurbano alla ricerca di un lavoro, solo una piccola percentuale ha successo, trovando in genere lavori faticosi nella produzione di beni di consumo di massa per un mercato occidentale instabile. Il quotidiano The Times of India descrive bene questo processo:

 

«Donne e bambini si stanno rivelando nel sud asiatico il nuovo “prodotto umano” venduto sul mercato del lavoro, mentre la rapida globalizzazione spinge sempre più persone a trasferirsi dai villaggi in lontane città alla ricerca di un lavoro. Ma la maggior parte diventa mano d’opera sottopagata o finisce sul “mercato del sesso”».

Oltre alla sofferenza umana, la spostamento della produzione dal nord al sud del mondo annuncia un forte aumento dell’inquinamento locale, dei rifiuti tossici e di altri danni ambientali, ad esempio in città come New Delhi, Bangkok e Città del Messico.

A dispetto delle attrattive superficiali di un’economia globale dominata dalle grandi corporation, il prezzo da pagare è alto: un ambiente sempre più deteriorato, un aumento della povertà, maggiore incertezza e maggiore disuguaglianza. A livello mondiale, la globalizzazione conduce a una diminuzione del controllo tanto economico che politico. Questa perdita di potere porta inevitabilmente a rabbia e frustrazione, e a un aumento dei conflitti etnici.

 

 

Perché l’iniziativa politica è assente?

 

Perché, a fronte della perdita di potere politico, del dissesto socio-ambientale e della crescente opposizione, la maggior parte dei responsabili delle decisioni politiche aderisce al fatalismo economico che circonda la globalizzazione?

Una risposta è che considerano l’innovazione tecnologica tanto vantaggiosa quanto inevitabile. Ritengono che la creazione di una casinò economy1 globale è stata resa possibile dallo sviluppo dell’alta velocità delle comunicazioni. Questi sviluppi hanno contribuito a rendere la casinò economy molto difficile da controllare, monitorare e regolamentare. Poiché l’innovazione tecnologica è considerata un “progresso”, il consenso politico afferma che non abbiamo altra scelta che appoggiarla accettandone anche le conseguenze economiche.

Questa visione del mondo deriva da varie cause, prima fra tutte un sistema scolastico creato per adattarsi a questo stesso sviluppo tecnologico/economico e che trasmette una visione del mondo sempre più frammentaria e riduzionista.

Il risultato è che diventa sempre più difficile tornare indietro e vedere le connessioni che collegano l’insieme. Se è vero che la tecnologia influisce sulle scelte economiche, è la politica economica che determina la tecnologia attraverso gli investimenti, ad esempio per la ricerca e lo sviluppo. Questi rapporti reciproci sono il risultato delle scelte politiche degli uomini, e non hanno una qualità di inevitabilità in senso deterministico. Una volta che questi rapporti sono chiari, diventa altrettanto chiaro che gli stati potrebbero riprendere il controllo della macchina economica.

 

 

Semi di speranza

 

Uno dei maggiori segni di speranza attuali è la volontà di un piccolo ma crescente numero di influenti decision-maker economici e politici di considerare il quadro nel suo insieme e di ripensare alcuni assiomi fondamentali riguardanti la globalizzazione. Motivati dalla crescente instabilità e dal drammatico crollo dei mercati, anche un finanziere come George Soros e addirittura il portavoce della Federal Reserve Bank degli Stati Uniti, Alan Greenspan, hanno avvertito dei pericoli dei mercati deregolamentati e surriscaldati.

George Soros ha recentemente affermato al Congresso USA che il «sistema capitalista globale sta cadendo in pezzi».

Anche politici come Paul Hellyer, ex-primo ministro canadese, ha sostenuto con forza che l’economia globale non è affatto un sistema di libero scambio:

 

«La globalizzazione non riguarda gli scambi. Riguarda il potere e il controllo. Vuole creare un mondo senza frontiere retto da una dittatura formata dalle più importanti banche centrali del mondo, dalle banche commerciali e dalle multinazionali».

 

Altrettanto, se non più, incoraggianti sono i recenti segnali di dissenso popolare. Alla base c’è il crescente interesse per l’economia locale come contrappeso alla globalizzazione. In tutto il mondo le comunità locali iniziano a reclamare il controllo della propria vita.

Uno dei punti principali riguarda i prodotti alimentari. Oggi, il nostro normale pranzo ha viaggiato letteralmente per migliaia di chilometri. Incoraggiando la produzione locale al consumo locale, le comunità stanno indebolendo la stretta dell’economia globale. Prodotti alimentari locali significano non solo una salute migliore e meno spreco di imballi e costi di trasporto; significano anche che il denaro rimane nella comunità, un aumento della diversità biologica e la ripresa della vita rurale. La crescente tendenza verso un’agricoltura sostenuta dalle comunità in tutto il mondo fornisce un collegamento diretto tra contadini e consumatori. Più di 40.000 famiglie nel Regno Unito acquistano regolarmente la loro “spesa biologica” da una fattoria locale. Negli USA esistono attualmente 2.400 mercati agricoli registrati, con un fatturato complessivo di milioni di dollari.

In molte località sono state create casse di risparmio e fondi per il prestito, aumentando così il capitale a disposizione dei membri della comunità e delle imprese locali, consentendo di investire nella propria comunità e in quelle vicine invece che in lontane corporation.

Contemporaneamente la creazione di una moneta locale consente alle comunità di ridurre la dipendenza dall’economia nazionale (e internazionale). Nella cittadina di Ithaca (N.Y.), una valuta locale è accettata da più di 250 commercianti.

I nuovi sistemi di baratto locale (Local Exchange Trading Systems - LETS), presenti in oltre una dozzina di paesi, consentono lo scambio di beni e di servizi senza bisogno di denaro. Nel solo Regno Unito esistono ormai oltre 400 LETS.

Le campagne “compra locale” consentono a piccole imprese di sopravvivere anche in competizione con corporation pesantemente sovvenzionate. Queste campagne non evitano soltanto che il denaro esca dall’economia locale, ma informano i consumatori sui costi nascosti (per l’ambiente e la comunità) nell’acquisto di beni meno cari, ma prodotti in luoghi remoti.

Norme locali e regionali sull’utilizzo del territorio stanno venendo emendate per proteggere aree naturali e terreni agricoli dallo sfruttamento. Negli USA sono sorti consorzi che proteggono oltre 2,7 milioni di acri di terra. In alcuni casi le amministrazioni locali hanno usato il denaro pubblico per comperare i diritti di ampliamento dei terreni agricoli, proteggendo nello stesso tempo il territorio dallo sviluppo edilizio incontrollato e riducendo la pressione finanziaria.

Inoltre, le scuole gestite dalle comunità incoraggiano bambini e genitori a sentire di più l’appartenenza alla comunità, rafforzando l’economia di cittadine e piccoli centri, e creando posti di lavoro a livello locale.

 

 

Scelte politiche

 

Ma queste iniziative locali non bastano certo. È essenziale che avvengano dei cambiamenti anche a livello nazionale e internazionale. In caso contrario, gli sforzi per ritornare al localismo, in un’epoca di grandi società monopolistiche, rischiano di rendere le comunità molto vulnerabili e in ultima analisi più impotenti. Purtroppo, molti attuali gruppi di dissenso popolare dimenticano le enormi concentrazioni di potere nelle mani delle TNC e delle istituzioni sovranazionali. Così, molti Verdi europei sono d’accordo nello smantellare gli stati nazionali a favore di Bruxelles, nell’idea sbagliata che il potere verrà in questo modo decentralizzato alle regioni.

Un numero sempre maggiore di questi gruppi di dissenso inizia, però,  a riconoscere che è virtualmente impossibile riportare il potere a livello locale senza l’aiuto dei governi nazionali. Molti stanno quindi facendo opera di sensibilizzazione sull’impatto dei trattati di “libero scambio” e sono riusciti a portare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle implicazioni della moneta unica europea, sulle politiche americane concorrenziali e sul MAI, con il risultato che molti di questi punti sono stati rinviati o congelati.

Nello stesso tempo, gli elettori stanno prendendo coscienza dell’impatto distruttivo dell’economia globale sulla loro vita quotidiana e sulla mancata risposta dei raggruppamenti politici dominanti ai loro problemi. Il risultato è che inizia a nascere un nuovo programma politico.

Questo nuovo programma riconosce la necessità di eleggere dei rappresentanti governativi decisi a contrapporsi al potere dei mercati finanziari e delle TNC. Vuole anche che i leader politici ritornino al tavolo delle trattative per convincere i loro corrispettivi di altre nazioni della necessità di redigere nuovi trattati che li mettano in grado di smettere di sovvenzionare le società monopolistiche. Un raggruppamento di stati sovrani può avere il potere di creare un campo di gioco di un’economia globale che non solo vieta i monopoli, ma che protegge i diritti umani e dell’ambiente a livello internazionale. Le voci di questi trattati dovrebbero venire ovviamente formulate con la partecipazione della società civile.

Più le economie del “miracolo” collassano, più la disoccupazione continua a crescere e l’impatto sulla biosfera diventa evidente, più cresce la consapevolezza di questi problemi. È possibile prevedere che tra non molto un gruppo di nazioni farà i primi passi per formare un’alleanza fondata sulla protezione delle rispettive economie, invece di creare gruppi commerciali per cercare di rimanere internazionalmente competitivi, come avviene attualmente.

Forse i necessari cambiamenti verranno favoriti dalla comprensione di ciò che sta accadendo dall’altra parte del mondo.

Il 50% della popolazione mondiale non è ancora stata inghiottita dall’economia industriale. Questa metà della specie umana, che vive in maggioranza nei villaggi del sud del mondo, è spesso ignorata dai responsabili delle politiche del nord del mondo che ci dicono che rallentare o invertire il processo di globalizzazione è “irrealistico” e “impensabile”. A loro parere, l’economia globale è “cosa fatta”.

Ma se pensiamo che una percentuale dell’umanità altrettanto grande è libera di scegliere una diversa infrastruttura, un modello economico diverso, allora le soluzioni decentralizzate proposte in questo studio appaiono più realistiche. È essenziale guardare alle possibilità future da una prospettiva meno ristretta e più ampia. È possibile rifiutare il centralismo sia delle economie sovvenzionate dallo Stato che delle grandi società capitalistiche.

Decentralizzazione significa ritorno a un equilibrio tra l’economia locale e la dipendenza dagli scambi internazionali, un equilibrio tra campagna e città, un equilibrio tra il potere delle comunità e quello delle istituzioni anonime e lontane.

Cambiare la destinazione del denaro delle nostre tasse per restituire il potere economico, e quindi quello politico, alle comunità e ai loro rappresentanti eletti, ricostituirà la vera democrazia. Questa decentralizzazione economica è forse l’unica via per creare strutture capaci di proteggere le diversità culturali e la ricchezza dei sistemi biologici.

 

Tratto dal libro "Piccolo è bello, grande è sovvenzionato"

 

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Categorie: Politica e Informazione,Decrescita,Ecologia e Localismo

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